NOVARA DI SICILIA – Grottesca, desolante. Gli aggettivi in questi lunghi anni si sono sprecati per raccontare la vicenda dei sette villaggi fantasma sparsi tra Novara di Sicilia e Francavilla, sul versante jonico.
Tutto ha avuto inizio nel dicembre del 1950, quando il governo regionale siciliano creò l’Ente per la Riforma Agraria in Sicilia (Eras). L’obiettivo era quello di far transitare i vecchi latifondi ai contadini, che avrebbero avuto il vantaggio di pagare in modo dilazionato, e di ottenere un contributo regionale. Furono previste, inoltre, alcune agevolazioni anche per i proprietari che offrivano volontariamente i loro terreni. È ciò che fece la contessa Maria Maiorca Mortillaro, suocera dell’onorevole Restivo, allora presidente della Regione Siciliana, che cedette 748 ettari del suo feudo proprio tra Novara e Francavilla. Prezzo della transazione: 22 milioni e 800 mila lire.
Così è iniziata la storia di quelli che sono stati identificati in seguito come i sette villaggi fantasma dei Peloritani.
La realizzazione delle strutture abitative fu affidata alla ditta Arcovito di Messina, per una spesa poco inferiore al miliardo di lire. L’organizzazione dei sette villaggi era ben strutturata: Borgo Schisina era il villaggio centrale, quello più grazioso, fiore all’occhiello dell’Eras e centro amministrativo di tutta l’organizzazione montana. Gli altri, vere porcilaie in mattoni, erano: Borgo San Giovanni, Bucceri-Monastero, Pietra Pizzuta, Malfìtana, Piano Torre, Mancina.
In tutto erano state realizzate centosessantaquattro abitazioni, a ciascuna delle quali spettava un appezzamento di terreno tra i due e i sei ettari.
Le assegnazioni furono fatte per sorteggio: la cerimonia inaugurale fu festosa, le case fresche di calce aspettavano solo di essere occupate.
Primo colpo di scena: sessanta assegnatari rifiutano subito l’offerta. Quelli che accettano non intendono stabilirsi con le loro famiglie nelle nuove residenze. Così tutte le casette rimangono vuote. Dopo dieci anni dall’inizio dell’impresa, a Malfìtana vivono due famiglie (ma solo stagionalmente, quando il lavoro agricolo è intenso). A Borgo San Giovanni le famiglie sono quattro, a Piano Torre nove, negli altri villaggi è la desolazione.
A Borgo Schisina si vede qualcuno solo nel periodo estivo, quando si organizzano le colonie montane dei figli degli assegnatari della riforma agricola di tutta la Sicilia.
Per spiegare il motivo per il quale 149 nullatenenti, con un reddito da fame, hanno rinunciato ad una casa ed un discreto appezzamento di terreno bisogna andare sui Peloritani. Ogni casa è costituita da due soli locali, una cucina di quattro metri per quattro e una stanza da letto di dimensioni leggermente inferiori. La luce elettrica era un sogno irrealizzabile. L’acqua in casa un vero lusso. Dentro fa caldo d’estate e freddo d’inverno, a causa del tetto delle casette realizzato a terrazza. Quando piove, l’acqua, essendo il livello del pavimento uguale a quello della cucina, filtra dalla porta e allaga i locali interni. Disastrose pure le condizioni della stalla e del fienile, locali piccoli ed esposti alle intemperie.
La terra poi era un vero disastro, necessitava infatti di un’opera di bonifica che i contadini dell’epoca non potevano eseguire per la scarsa tecnologia di cui disponevano e per la necessità di eseguirla in larga scala e sotto gli occhi esperti dei periti agrari. Inoltre i contadini avrebbero lasciato un lavoro sicuro di braccianti negli agrumeti più a valle per un’impresa fallita in partenza. I pochi contadini che accettarono di andare a vivere nei villaggi ebbero per un certo tempo l’assistenza dall’Eras, poi furono lasciati al loro destino.
Ma per capire quanta malafede ci fosse nell’operazione Mortillaro-Regione, basta dare un’occhiata alla topografia dei terreni scorporati: non un’area compatta ma una incomprensibile scacchiera dove i settori scorporati si alternavano a settori adibiti al pascolo lasciati in mano ai vecchi proprietari.
Quindi per impedire alle greggi di sconfinare nei terreni concessi ai contadini, si rendeva necessaria un’opera di recinzione. Considerando pure che tradizionalmente i pastori appiccano il fuoco al pascolo per nutrirlo con le ceneri, esisteva il rischio di distruggere pure i terreni coltivati.
A questo punto ha valore quanto si affermava sottovoce all’epoca dell’iniziativa regionale, e cioè che l’intera operazione era macchiata di evidenti favoritismi a vantaggio della vecchia proprietaria. Appare impossibile che i tecnici dell’Eras non abbiano fatto i conti con almeno metà dei problemi cui sono andati incontro. Ed era davvero equa una cifra apparentemente onesta di 22 milioni per dei terreni il cui reddito era praticamente zero?
Interrogativi che hanno avuto con gli anni delle facili risposte nelle evidenze, come quella che l’ispettore dell’Eras, a quel tempo, era un certo dottor Angelo Barbagallo, tra l’altro amministratore delle proprietà della contessa. Per la Regione, il costo dei sette “cimiteri” non ha superato il miliardo di lire, contro i due sostenuti da fonti bene informate dieci anni dopo.
Ancora la Regione, rispondendo ai giornalisti, si scusa dicendo che “i contadini sorteggiati nel 1950 erano abulici ed incapaci. Vedrete come saranno diversi quelli nuovi”. Infatti tutto è rimasto come prima.
Sette villaggi buoni per girarci un film
Le macchine da presa sui Peloritani ci sono arrivate con Michelangelo Antonioni, che ha girato molte scene del suo film “L’avventura”, con Gabriele Ferzetti e Monica Vitti, fra le case degli squallidi villaggi messinesi.
Gli spettatori quasi non se ne accorgono perché il film è stato abbondantemente tagliato. La sceneggiatura originale, però, prevedeva alcuni minuti di pellicola ambientata nel paesaggio spettrale: la macchina corre in un paesaggio brullo, per la strada che si snoda fin oltre una collina. Lontano si vede un paesaggio fatto di costruzioni nuove che si susseguono a ritmo regolare. La macchina vi entra e si ferma.
Sandro (Gabriele Ferzetti) scende e si avvicina ad una fontana, ma la fontana non dà acqua. Stupito il giovane si guarda intorno. Soltanto adesso lui e Claudia (Monica Vitti) notano che il silenzio che li circonda è innaturale e che in parte, le finestre, i recinti del paese sono tutti chiusi. Non c’è segno di vita, se non l’erba che cresce fra le connessure e che invade e soffoca tutto.
Anche Claudia scende dalla macchina e con Sandro si aggira per le strade; il sole batte ferocemente sulle case sgretolate, sulla chiesa, sul monumento inutile dove c’è i scritto: “Al lavoratore agricolo”.
A questo punto si inserisce la nota scena d’amore fra Sandro e Claudia. Poi: Claudia si riscuote. Si mette a sedere e si accorge che la campagna e lo stesso villaggio sono adesso scuri e immobili, come morti. Ha un brivido che la scuote decisamente e si alza.
CLAUDIA: Andiamo via subito… questo non è un paese è un cimitero.
SANDRO: Chissà perché l’hanno fatto.
La strana “Cinecittà” ebbe un’altra parentesi cinematografica con Roberto Rossellini che vi girò uno splendido documentario in bianco e nero nel 1960. Sino ad oggi i sette villaggi fantasmi hanno avuto l’unica funzione di studio per il cinema.
Chi guarda i villaggi passando, ci vede le più disparate possibilità di utilizzazione: dal centro di equitazione alla comunità per tossicodipendenti, dalla comunità religiosa al villaggio attrezzato e polivalente, in tempi in cui si parla tanto di agriturismo e considerando che tutta la zona è “Oasi di protezione e rifugio della fauna”.
Nella realtà per gli sfortunati villaggi esiste solo un futuro di lento sgretolamento.
Nemmeno il comune di Francavilla, oggi proprietario di borgo Schisina è riuscito a cambiare le cose.
1989 – Francesco Venuto