Belice, breve viaggio nella memoria e nell’utopia

VALLE DEL BELICE (giugno 2005)– Avevo pressappoco l’età di mio figlio, che oggi ha nove anni, quando dalla tv in bianco e nero, un Mivar a valvole con due soli canali Rai, apprendevo che nel Belice c’erano state alcune scosse di terremoto.

Era il 1968, una domenica come tante (il 14 gennaio), ed era finito da poco il più classico dei pranzi domenicali: pasta al ragù e “falso magro”.

Erano tempi in cui il resto del pomeriggio festivo si dedicava all’ascolto del “calcio minuto per minuto”: io avevo

una radio a transistor, anche questa marca Mivar, edimg166 era un vero gioiello tecnologico per quell’epoca. Ma invidiavo maledettamente mio cugino, che invece possedeva un’enorme radio a valvole, con tanto di “occhio magico” per centrare la frequenza delle stazioni in onde medie, dal suono pulito e potente.

E poi riportava impresso sul frontalino le città siciliane dove c’erano le stazioni regionali della Rai, Caltanissetta, Palermo, Trapani etc. E non era cosa da niente!

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Finite le partite di seria A si andava nella strada senza uscita sotto casa per riproporre una sorta di moviola delle azioni che avevamo ascoltato in precedenza.

Uno di noi ragazzini si metteva in porta alla fine del vicolo cieco, dopo aver steso a terra un foglio di cartone; l’altro invece, palla al piede, il mitico “Supertele”, riproponeva le azioni commentandole alla maniera di Ameri o Ciotti, e con rigoroso boato del pubblico: “Oaaaaaaaaaaa”.

Così ecco che Burnich passava a Mazzola (il muro che faceva rimbalzare la palla) che a sua volta tirava in porta. Dove Pizzaballa o Superchi (due miti di quei tempi) si esibivano nella più classica delle parate in tuffo, con tanto di tonfo sordo sul cartone. Cartine  che per risposta emanava un forte odore di carta riciclata mista a polvere. A volte, nella fretta di aprire le scatole per farle diventare materassino, lasciavamo attaccata qualche graffetta metallica, che finiva per ferirci o per lacerarci magliette e pantaloncini, proprio quelli buoni della domenica…

Vivevamo di poche cose, come tanti italiani; o forse come tanti bambini della provincia siciliana. Di certo conducevamo una vita apparentemente messa meglio dei nostri corregionali che vivevano a Gibellina o Poggioreale.

Di loro ci siamo accorti il giorno dopo:

< <15 Gennaio, lunedì,

Ore 02,33 (It.) VII°-VIII° Mercalli – La Paura – Ipocentro a cinquanta chilometri dalla verticale del Monte Bruca. A Palermo, Trapani e negli altri centri della Sicilia centro occidentale è il panico. La popolazione abbandona le case, cerca la salvezza per strada, affolla le piazze. Le aree all’aperto si gremiscono di persone che commentano il pericolo scampato. Ingorghi, traffico stradale da ore di punta e tamponamenti animano quella strana notte di Gennaio.

Ore 03,01 (It.) – IX° Mercalli – Il Terrore. A circa quaranta chilometri di profondità sotto la Valle del Belice si rimette in movimento una frattura assopita dalla notte dei tempi generando onde sismiche, stimate di magnitudo 6.0 e con effetti all’epicentro, del IX° Mercalli,

Le luci si spengono, le linee telefoniche saltano sotto il fragore assordante del terremoto e delle abitazioni dei centri storici, che si sgretolano annientate in circa dodici secondi con un forte movimento ondulatorio Est-Ovest. Poi il silenzio, rotto dalle urla disperate di chi è sopravvissuto e brancola al buio tra la polvere soffocante alzatasi durante i crolli e il passo difficoltoso fra le macerie.

Alle prime luci dell’alba la tragedia rivela la sua dimensione catastrofica. I soccorsi tardano ad arrivare, le notizie sono confuse, alcuni centri abitati sono isolati, difficilmente raggiungibili. Man mano che il cerchio si stringe, la catastrofe assume il suo aspetto autentico privo delle sfumature fatte dal solo panico e si evidenzia la cattiva organizzazione dei soccorsi e della carenza dei mezzi a disposizione>>.

(Brano tratto da http://www.iesn.org/speciali/belice.htm).

Altro link utile

Questa foto è stata realizzata a Villafranca Tirrena (ME) nell'area dove sono cresciuto. Vecchie case di mattoni e terremoti sempre in agguato.

Io vivevo nella provincia di Messina: noi sappiamo cos’è un terremoto. La città parla ancora della catastrofe del 1908, sotto forma di baraccopoli mai scomparse del tutto, o scavando a pochi centimetri sotto terra (riemergono macerie e fregi di antichi palazzi), oppure visitando uno qualsiasi dei cimiteri di città e della provincia.

Siamo terremotati dentro, e viviamo la vita con precarietà: ricordo di essermi svegliato molte volte a causa di una scossa di terremoto. E non è una bella sensazione.

< < Appena giunta la notizia del sisma, abbiamo organizzato una raccolta in favore dei terremotati. Con due camion stracolmi e una vettura (la Fiat 1100 dell’Appuntato Campolo) – scrive Nicolo’ Di Vita, all’epoca un giovane studente di Villafranca Tirrena – siamo stati in quei luoghi dopo quattro giorni dall’evento. Ricordo l’atmosfera cupa, il silenzio irreale, rotto dalle sirene dei mezzi di soccorso. Le case erano diventate piccole piramidi di mattoni di tufo e racchiudevano la morte. Ho visto il pianto degli adulti e il terrore negli occhi dei bambini. Stremati dalla fatica, Siamo tornati a Villafranca dopo due notti insonni e con tanta tristezza nel cuore>>.

Gibellina 2005

Nonostante tutto le immagini, le cronache, il ricordo di ciò che accadde nel Belice, mi ha accompagnato per il resto della mia vita. E’ come se tutti noi ragazzini avessimo toccato con mano ciò che comunque sapevamo: in un attimo potevano scomparire tutte le nostre certezze, vere o presunte. Alla tragedia vera e propria, poi, c’è da aggiungere il lungo calvario della ricostruzione delle città distrutte, un aspetto che a dire il vero appartiene ancora al nostro presente.

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Così, per questo motivo, sino all’undici giugno scorso la Valle del Belice era per me un posto familiare, nel bene e nel male. Eppure, nonostante i miei frequenti viaggi all’interno della Sicilia, in quella valle non c’ero mai stato, pur avendo, da sempre, il desiderio di passarci, prima o poi. Questa sorta di tabù è stato violato assieme ai miei figli. A volte mi chiedo perché me li porto in questi luoghi sperduti: per arrivare a Gibellina Vecchia, dove ci sono i ruderi, ho preso una strada secondaria partendo da Sciacca, credo di aver attraversato più volte le province di Trapani e Palermo e, per chilometri e chilometri, vedevo solo campagne coltivate che sembravano disegnate da un artista.

Fin quando non mi si è presentato davanti un bivio (nella foto). .Uno dei cartelli indicava la via per raggiungere i ruderi della vecchia Gibellina, ma la strada era di per sé stessa un rudere: ad un certo punto sul costone di una montagnola il manto stradale appariva fratturato e più basso rispetto all’asse stradale di circa 20 centimetri, e solo una buona dose di incoscienza mi ha permesso di andare comunque avanti.

Dopo il pericolo Gibellina vecchia appare. Si tratta di pochi ruderi e una grande opera d’arte: il cretto di Alberto Burri. I ruderi della città sono stati incapsulati in blocchi di cemento bianco disposti secondo l’antico sistema viario. E’ arte moderna, è suggestione, E’ un grande sacrario. Ma è anche l’occultamento della realtà, della verità storica.

Ma questa è solo un’opinione e come tale va presa con le dovute cautele.

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Alla fine a Gibellina vecchia ci sono poche cose da vedere, pochi ruderi che non danno il senso dell’antico centro abitato, né della tragedia. Questo tipo di informazioni si possono rintracciare invece nella vecchia Poggioreale. Purtroppo io suggestionato dal mito Gibellina ho trascurato questa meta. Altri ruderi, tra i quali un ponte rimasto però in piedi, sono visibili lungo la strada che da Gibellina Vecchia porta a Salaparuta Nuova. Anche il nome Salaparuta riecheggia nelle orecchie di tutti: un po’ per la storia dell’antica Salaparuta, un po’ per il buon vino che si produce sotto queste insegne.

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La nuova Salaparuta è invece l’esempio di ciò che non si dovrebbe mai fare in questi casi. Io credo che villaggi militari, come quello americano di Sigonella, abbiano più senso e vivibilità di quest’agglomerato urbano semi disabitato e decontestualizzato dall’ambiente circostante, dalla storia dei suoi abitanti e dal buon senso. Per comprendere meglio l’impressione che ho avuto val la pena di leggere queste note: http://www.studiobenfari.it/santamaria.html

Il mio viaggio si è concluso a Gibellina Nuova Internet è piena di fotografie e delle storie di Gibellina Nuova. Probabilmente del Giardino segreto I e II non parla mai nessuno: è un’opera di F. Venezia, del 1989. E’ cemento, con qualche problema di sgretolamento dopo tanti anni, ma è piaciuta ai miei figli, specialmente Il Giardino segreto I. L’altro è diventato il giardino di un bar e forse per questo è stato meno apprezzato dai piccoli.

Vi consiglio una lettura: http://www.stampalternativa.it/wordpress/index.php?p=17 Io stesso ho verificato la diffusione del libro di La Ferla, almeno nelle biblioteche pubbliche, con l’Sbn on line.

In Sicilia pare che non si trovi in nessuna delle biblioteche pubbliche, regionali e comunali. Mah?

Invece delle foto delle opere d’arte e dei grandi artisti di Gibellina, pubblico la foto di Massimo. La moglie di Massimo ha affittato, pagando 15 anni di locazione in anticipo, il Meeting, opera di Consagra.

E’ un bar e disco pub. E’ un’opera d’arte in cemento e forati e, a causa delle infiltrazioni d’acqua e della corrosione dei ferri, un travetto e un forato del soffitto esterno si sono lesionati.

Massimo da tre mesi chiede al comune di intervenire, o di poter intervenire egli stesso per riparare il danno. Risultato: non riesce ad ottenere una risposta.

Ora, tra le tante utopie da insegure, non era meglio cominciare dal cambiamento della mentalità di burocrati e amministratori?

Infine, per essere una città moderna Gibellina ha costi elevati per i servizi pubblici. Sulla carta vi abitano circa cinquemila persone, buona parte delle quali in realtà sono state costrette ad emigrare, oppure ad andare in località più vivibili. Ma le tasse le devono pagare comunque, anche se di fatto non abitano le case del villaggio. Quindi anche se fosse intesa come villaggio turistico, Gibellina non è conveniente. E la sensazione di eterna incompiuta è palpabile, seppure appare evidente il tentativo di salvare dal degrado e valorizzare almeno le opere d’arte.

Francesco Venuto

3 Risposte a “Belice, breve viaggio nella memoria e nell’utopia”

    1. Scusa se ti rispondo 8 anni dopo (Ho visto solo adesso il commento :)). Ti ringrazio per i complimenti che ricambio, dopo aver potuto apprezzare la tua bravura professionale. Francesco Venuto

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