Un giorno sui Nebrodi: due paesi, le speranze di crescita e tante storie da raccontare

 

LONGI – Un villaggio abbandonato da quarant’anni che vorrebbero affittare ai turisti, in contrada Mile, poco sotto Galati Mamertino; un castello per metà diroccato e per metà sede di una banca con i conti in attivo, mentre il castellano, il marchese di Cassibile, si occupa dell’allevamento di bufali, un’attività innovativa in Sicilia, ma che non è stato possibile adattare nel paese nebroideo.

Sullo sfondo, un giallo che sta appassionando le anime di Longi, Frazzanò e circondario: quanti soldi ha lasciato in eredità ai parenti l’arciprete Palumbo buonanima? Così tra amenità e misteri da svelare al bar, giocando a carte, si anima la vita in una striscia di Nebrodi ricca di passato e di pensionati, anche se nelle festività, come quelle natalizie, il passeggio serale dei giovani, meglio conosciuto come «struscio», fa pensare diversamente.

Il sogno turistico

Qui la gente pensa seriamente al turismo ed i Comuni si stanno guardando intorno per vedere, specialmente nel campo della ricettività, cosa possono offrire al «forestiero»; in quest’ottica va interpretato il progetto di riadattare le case del vecchio borgo «Mile», disteso sopra le alture da cui è possibile scorgere l’omonimo torrente,e le sue gole crudelmente cementifìcate in onore ad un incomprensibile progetto di consolidamento dell’alveo del torrente stesso. Ancora sono visibili pure i resti di un vecchio mulino ad acqua.

Il fascino di Borgo Milè

Le casette del borgo costruite in pietra, con un piano di sopraelevazione traballante, furono abbandonate negli anni Cinquanta a causa delle frequenti alluvioni. Ancora oggi mostrano nella loro integrità le caratteristiche del mondo contadino-pastorale: attaccate ai muri della casa, ad esempio, ci sono le porcilaie per allevare il suino nero dei Nebrodi che nell’economia familiare rappresentava un vero tesoro: «du porcu non si jetta nenti».

Poi ancora le stalle, i recinti per il bestiame e, all’interno, il forno a legna che comunque ancora oggi è presente nelle case dei centri abitati. La fattiva realizzazione di un borgo agrituristico adesso passa per il raggiungimento dell’accordo tra le famiglie che sono proprietarie delle case. Unici turisti attualmente sono le capre ed i maiali.

Un giorno arrivò una mandria di bufali

I bufali, invece, non sono di casa da queste parti, e nel centro abitato di Longi, quando sono stati portati dal marchese di Cassibile, proprietario di vari appezzamenti di terreno e del Castello che appartenne alla famiglia Lancia, hanno destato non poca meraviglia.

La banca in attivo

La «Cassa rurale ed artigiana della valle del Fitalia», è patrimonio dell’imprenditoria locale, ha sede in un’ala restaurata del castello e raccoglie clienti da tutto il circondario presentando bilanci, come l’ultimo, con parecchi zeri di attivo.

Se, come afferma un proverbio locale, «Mirtu, Frazzanò, Galati e Lonci su li quattru paisi di li funci», nella zona circola anche il denaro, un’innata genialità e care storielle di paese.

Anche queste oggi sono raccontate nelle trecento pagine che Vincenzo Valenti, Eloisa Campisi Carcione e  hanno scritto sulla storia e le virtù di Longi. Ai giovani hanno voluto ricordare, don Vasili Corrao, il primo fotografo del paese, morto nel 1934, che si costruì da solo la prima macchina fotografica; don Miliu Bellissimo, vanitoso fotoamatore dilettante, che nelle immagini ufficiali, operando un abile fotomontaggio, inseriva la sua effìgie; donna Ciccia, che gestiva l’omonima locanda, e oltre al brodo di cappone, le salsicce e i pomodori secchi, offriva rifugio alle coppiette dei paesi limitrofi che avevano messo in atto la fatidica «fujutina».

E poi, don Giovannino, eroe tragicomico e ormai figura quasi leggendaria, protagonista di avventure e disavventure simili a quelle del più noto «Giufà». Come quando la sua morbosa gelosia costrinse la moglie Mariarosa a tornarsene a casa dalla mamma. Don Giovannino chiese l’intervento dei carabinieri e del podestà: una favola che fece ridere tutto il paese ma, come ogni favola, a lieto fine.

L’eredità dello zio arciprete

L’eredità dello zio arciprete è la commedia che, da un anno a questa parte, tiene banco nei bar e nella piazza di Longi, proprio di fronte alla chiesa dove Antonino Palumbo, classe 1933, si prese cura per un trentennio delle anime del paese.

Il nodo irrisolto è sempre lo stesso, ormai fluttuante come il montepremi del totocalcio: qual è l’ammontare della somma che l’arciprete buonanima ha lasciato ai quattro fratelli che dimorano nella vicina Frazzanò? La cifra varia dal miliardo e mezzo (voce raccolta ai tavolini del bar della piazza tra uno scopone scientifico e una briscola), al miliardo tondo (secondo il sondaggio di piazza all’aria aperta) sino ai cinquecento milioni, ipotesi su cui Salvatore «il benzinaio» è pronto a mettere la mano sul fuoco.

«Se anche l’arciprete avesse posseduto più soldi, se li è mangiati con la malattia», arringa tra un pieno di benzina e quattro chiacchiere con gli amici al bar.

Il benzinaio pare voce attendibile, perché era molto vicino alla parrocchia: nelle tradizionali sacre rappresentazioni di storia – afferma -. «Certo, in giro è il caso del giorno».

Donna Concetta, anziana «fedelissima», facendosi il segno della croce, mostra il «santino» di Antonio Palumbo: un’immaginetta messa in circolazione dal nuovo arciprete don Giuseppe un paio di giorni fa, in occasione del primo anniversario della morte. Un cartoncino bianco con foto del defunto e un messaggio di pace: «Non piangete». Ma a piangere, secondo una ben informata «gola profonda», sono coloro che avevano affidato al prete somme consistenti per la costruzione, dopo la loro morte, di una degna sepoltura. Il tutto sulla pa-rola. Ma la morte di don Palumbo ha colto tutti di sorpresa, non ultimi i parenti, che si sono trovati tra capo e collo un’eredità inattesa i cui zeri restano tuttora ignoti.

L’unico fatto certo è, invece, la lite in famiglia che ha avuto un momento di pubblica sceneggiata sul sagrato: a Longi sono in molti a poter testimoniare di aver visto i fratelli portar via dalla Chiesa pure le piante e i sottovasi.

Ma i parenti minimizzano: ‘’Sono solo chiacchiere… Non ci sono miliardi’’

Padre Palumbo, l’arciprete di Longi, era originario di Frazzanò, una decina di chilometri più sotto del paese dove ha poi trascorso un lungo periodo della sua vita. Qui vivono i suoi fratelli, i quattro destinatari della misteriosa eredità.

«In tutta questa storia, secondo me, non ci sono misteri. La verità è che, mentre era in vita, mio cognato era rispettato e i longesi gli volevano un gran bene. Poi, inspiegabilmente, quando è morto, hanno iniziato a calunniarlo, dandogli addosso con motivazioni che sono campate in aria».

A parlare è la moglie di Giuseppe Palumbo, uno dei fratelli del defunto arciprete di Longi. Secondo le parole dei familiari di don Palumbo vanno ridimensionati pure gli zeri dell’eredità:

«Certo qualcosa l’ha lasciata, ma non sono sicuramente miliardi – continua la signora Palombo -. Le assicuro che nemmeno noi siamo in grado di stabilire a quanto ammonta perché il nostro caro congiunto non ha lasciato alcun testamento. Noi ci siamo divisi unicamente gli arredi della sua casa. Cose personali che hanno pur sempre un valore relativo. E nulla più. Sono false pure quelle voci che dicono che la famiglia si sia spaccata, facendo finire la questione persino in tribunale. Non è assolutamente vero».

Anche la sceneggiata sul Sagrato della chiesa madre viene ridimensionata dalla signora Palumbo: «Non c’è stata alcuna lite davanti alla chiesa. Queste sono invenzioni dei longesi. Certo dentro la chiesa qualche discussione c’è stata, ma roba di poco conto».

Così rivive il castello di Longi

Ha due corpi ed un’anima sola il castello-palazzo di Longi. Poco distante dalla piazza principale del paese, è risorto agli antichi splendori nella parte restaurata, oggi sede della Cassa rurale ed artigiana della valle del Fitalia, che ha provveduto a riportare alla luce, sotto i moderni intonaci, le originarie strutture di pietra. Un’altra ala, invece, dove la fantasia popolare per bocca dei vecchi di Longi ha collocato, come nella migliore tradizione dei castelli, un fantasma vagabondo che nottetempo provoca i più strani rumori, è abbandonata a se stessa, in seguito a controversie sorte al momento di rivendicare la proprietà dell’immobile: resta un affresco magniloquente con smanie di grandeur sul soffitto di un saloncino; qualche porta decorata, ma scrostata, con una «passeggiata» di nobili sotto un vezzoso ombrellino, di gusto-settecentesco, qualche mattonella di maiolica colorata nella pavimentazione. Tutto è oggi del marchese di Cassibile, che a Longi. «Gli ultimi proprietari del castello furono i duchi d’Ossada, presso i quali mio padre fu accolto affettuosamente fin dall’età di otto anni, diventando una persona di famiglia – racconta Mimmo Lazzara -. Nel 1965, alla morte della duchessa Domenica Zumbo, ultimo rappresentante della famiglia Ossada, il castello fu lasciato al Comune e ai longesi». Poi il ricorso giudiziario del Marchese di Cassibile riuscì a dimostrare che la proprietà del castello spettava al nobile siracusano.

9 gennaio 1991 – Francesco Venuto

Nota dell’autore: Il servizio pubblicato sopra è già stato oggetto di un procedimento penale nei miei confronti presso il Tribunale di Palermo. Procedimento intentato dal Marchese di Cassibile. Pertanto la stesura pubblicata oggi è stata “depurata” delle parti che lo stesso nobile riteneva offensive per la sua persona. Ovviamente non era mia intenzione offendere il nobile siracusano, tantomeno gli altri personaggi raccontati nel lungo servizio. Fare il giornalista è raccontare. E questo è il lungo racconto di una giornata su di una piccola porzione di territorio nebroideo. Preciso che il procedimento giudiziario (ero difeso da una giovanissima avvocatessa di Palermo: Giulia Bongiorno), andato avanti per diversi anni, con le diverse richieste di archiviazione da parte del PM e le resistenze degli avvocati della parte offesa, si è concluso con una remissione di querela, con spese a carico del querelante.