Storie isolane: dedicato a Mio nonno, il Finanziere di Filicudi

FILICUDI – Essere al servizio militare a favore dello Stato è diventato nel terzo millennio una speranza per i giovani , quasi un’ambizione lavorativa in un contesto storico che lascia poche possibilità di trovare un’occupazione; ma negli anni antecedenti o persino durante le grandi guerre il fattore stimolante ad intraprendere una carriera militare era decisamente più dignitoso, poco raccomandabile e del tutto scevro da qualsiasi compromesso di tipo utilitaristico; solo puri ideali nazionalistici ed uno sviscerato orgoglio nei confronti della propria patria muovevano l’animo del giovane che aspirava a ricoprire la carica d’ufficiale nelle forze dell’ordine.

Fu proprio per questa nobile causa che il diciottenne Antonino Marchetta, nato sulle tiepide colline di San Pier Niceto nel luglio del secolo scorso, (avrebbe infatti compiuto 100 anni quest’estate), si sentì chiamato dall’impellente vocazione di difendere gli interessi del morente e grigio governo Giolittiano e del susseguente e audace comando Mussoliniano, dedicandovi l’intera vita alla Finanza; amava del resto ripetere sempre ” il servizio è servizio”anche quando in servizio non lo era più. Seguendo, spesso a malincuore, il tormentato percorso di ricordi impalliditi dal mezzo secolo di distanza che li separa dalla scomparsa del proprio zio, i nipoti riaffiorano pezzi di memorie commoventi ma al loro avviso ragguardevoli e degni di essere rievocate e immortalate dall’inchiostro.

Gli anni più belli, sempre secondo le testimonianze di chi lo conobbe più da vicino, pare che Antonino li abbia trascorsi nel lontano Piemonte, tra il ‘25 ed il ‘30 ,dove proprio a Torino, fiero del proprio ruolo militare e dei primi soldi in tasca comprò un vecchio strumento musicale, il grammofono, strumento che gli consentì almeno per poco di godere l’effimero dono della gioventù e della pace in un tempo in cui si respirava nell’aria quasi l’odore della polvere da sparo.Teneva infatti ogni sera una festa da ballo con i compagni di brigata fino a quando non fa ritorna, trasferito, al suo paese natio.

La conquista poi di Addis Abeba e dell’Etiopia tutta, nell’Africa orientale da parte del reggimento fascista con a capo il Generale Badoglio nel ‘36 lo vide partecipe lusingato della gloria oltre i confini dell’implacabile Benito ma purtroppo lo scopre anche facile preda della malaria, ragion per cui probabilmente per il suo fisico che non si prestava più alle missione belliche venne congedato. Ma intorno al ’42 nel clima della seconda guerra mondiale, il destino lo rivolle nuovamente assoldato nella Guardia di Finanza (la caserma dei carabinieri a Filicudi non era stata ancora insediata), su quell’isola inesplorata e misteriosa che sin da bambino vedeva piccola piccola in lontananza: Filicudi.

Appena giunto, l’isola prese vita in uno scenario dai mille colori, fragrante d’uva dolce e di agrumi appena maturi, coltivate da una miriade di “vergini” pronte a diventare spose di un buon partito che magari le portasse lontano da quell’isola povera; il destino ha scelto tra le tante una piccola donna, Maria Carmela Rando, la ragazza di cui presto ne farà una moglie affettuosa e dalla quale avrà tre figli: Idria, Pietro e Graziella. I venti di guerra purtroppo raggiungono presto anche la Sicilia, siamo intorno nell’anno ‘44 e Antonino viene nuovamente reclutato, del resto la campana suonò per tutti senza pietà ed egli non fa neanche a tempo di vedere nascere la sua prima figlia nel ’44 che già è in armi.

Spostandosi di nascosto con le barche a remi, da Filicudi alle coste della Sicilia, cullato da un mare immenso ed illuminato dal bagliore intermittente delle bombe lanciate su Milazzo, Antonino rimane vittima di uno choc fulminante che lo rese sofferente da sindrome schizoide fino alla fine dei suoi giorni, conclusisi nel ’50 come risulta nell’estratto di morte; dopo lo sbarco degli alleati americani e la fine della guerra torna a casa ma non è più l’ufficiale Marchetta di prima e dopo circa tre anni quel tunnel oscuro e alienante della sua follia lo accompagnò piano piano alla pazzia più cruda del termine e all’essere relegato nel fatiscente ed disumano Ospedale Mandalari di Messina .

Nulla di più riuscirà a saperne la moglie appartata all’altro capo del mondo dove la nave vi arrivava una volta a settimana dopo quasi dieci ore di navigazione,e rincuorata solo dalla speranza di vedere un giorno tornare a casa il marito, in quella casa dove due piccini ed una neonata lo stavano aspettando. Mai più dopo il ‘48 vi fece ritorno neanche da morto. Un pensiero che ancora lacera i propri figli; a nulla sono valse infatti le lunghe ed insistenti ricerche percorrendo gli episodi più significativi ed ultimi della sua esistenza, al sospirato scopo d’individuare e dare almeno un nome alla tomba in cui giace, con la grazia di potervi posare almeno un fiore. dedicato a mio nonno (ovunque si trovi).

Gabriella Federico