Storia di Rosa, sedotta e assassinata

SAPONARA (ME) – Una decina di giorni fa, colto da infarto cardiaco, moriva a Saponara Antonino Salvo, protagonista nel marzo del 1956 di una delle pagine più nere della storia sociale del comune peloritano. Egli infatti con bieca freddezza uccise la propria fidanzata Rosa Pino, che aveva sedotto due anni prima, la quale ebbe il torto di amarlo e sperare nel matrimonio riparatore. Rosa Pino aveva compiuto da poco 32 anni. Piccola di statura, né brutta né bella, sino ad allora aveva vissuto la sua modesta esistenza in una casetta bassa di mattoni e calce nel centro storico di Saponara. Da quando le era morta la madre di cancro, nel 1940, si era occupata a tempo pieno dei suoi tre fratelli e di papa Pietro.
Pietro Pino era quello che si dice un gran lavoratore, con l’immancabile coppola grigia sulla testa e il rispettabile titolo di “Capo ciurma” presso l’impresa agrumicola Bertino di Villafranca Tirrena. Da qualche tempo due dei fratelli di Rosa, Biagio e Antonino, avevano trovato sistemazione in Piemonte. Sebastiano, invece, lavorava come autista nella stessa azienda Bertino e, quindi, era rimasto a casa con la sorella.
Rosa era innamorata di un uomo di quattro anni più giovane di lei, Antonino Salvo, di professione potatore d’alberi, “di condizione sociale lievemente inferiore alla famiglia della stessa giovane”, scrissero i cronisti nei loro resoconti d’epoca. I due fidanzati parlavano da tempo di nozze, ma con scarsi risultati.
Il 21 marzo 1956, alle 11 del mattino, il corpo senza vita di Rosa Pino fu ripescato dai Vigili del fuoco dal fondo di un’antica senia bastionata di contrada “Majorani” di Scarcelli. Da quella torre fatta di pietre scolpite che trasudava secoli di storia sin dalla dominazione araba, emerse il cadavere della poveretta, di cui si erano perse le tracce da due giorni. Quarantotto ore di disperazione in cui i familiari avevano sperato invano che Rosa e Ninai fossero fuggiti per la più classica delle”fuitine”. Speranza crollata alla vista del giovane che, con aria noncurante, il mattino dopo girava apparentemente ignaro per le vie del paese. Del resto negli ultimi tempi Antonino Salvo, un uomo dal temperamento piuttosto chiuso, spesso taciturno, che trascorreva gran parte delle sue giornate nel silenzio dei campi, aveva mutato il suo atteggiamento nei confronti di Rosa. In paese dicevano che “voleva farci l’affare”. “O forse voleva solo trovare il pretesto per rompere il fidanzamento?”. Di certo c’è che Minuzzo cominciò ad accampare pretese e a stabilire le condizioni per convolare a nozze con Rosa: chiese a don Pietro Pino un milione di lire di dote, una casa e un fondo. Intervennero i parenti della giovane e Salvo inventò ulteriori scuse, come quella di voler maritare prima la propria sorella, secondo una consuetudine tradizionale ancora molto sentita in quegli anni.
Un tentativo di rimettere le cose a posto lo fece anche il comandante della stazione dei carabinieri, il brigadiere Vicari, ma inutilmente; Antonino Pino, messo davanti alle sue responsabilità, negò con fermezza di avere abusato della donna, anzi attribuì ad altri tale iniziativa. Rosetta comunque sperava e aspettava fiduciosa. Ma nel luglio del 1955 le cose precipitarono e a tutti sembrò evidente che la storia d’amore si fosse a quel punto conclusa definitivamente. Un traguardo dolorosissimo per quei tempi e in quel contesto sociale, poiché in paese si chiacchierava molto sul fatto che Rosa si fosse concessa a Nino e quindi non sarebbe giunta illibata all’altare, se mai vi fosse arrivata. Lo sapeva anche il padre di Rosa che, balbettando disperato alla vista del cadavere della figlia davanti al pozzo di contrada Majorani, confermò quelli che sino ad allora erano semplici pettegolezzi.
Il cronista della Gazzetta del Sud Silvestro Prestifilippo, con il suo linguaggio intriso d’enfasi barocca e presunzione d’analisi socio-ambientale, scriveva sul suo giornale il 22 marzo 1956: “… L’amore a trent’anni in quell’ambiente diventa vampata di carne e di sangue, impeto radioso di abbandoni, desiderio voluttuoso e prepotente che travolge”. Prestifilippo forse aveva visto al cinema Peloro di Messina, dove era in programmazione in quei giorni, “Sangue caldo” con Robert Mitchum e Jan Sterling. Era comunque evidente per tutti l’imbarazzo di dover riferire di un omicidio maturato nel chiuso di una piccola comunità come quella di Saponara, delitto che, quando il corpo di Rosa galleggiava ancora nell’acqua del pozzo, fu in
un primo tempo interpretato come un suicidio. La causa veniva rintracciata nell’ennesima delusione della giovane, dopo aver avuto ancora un’animata discussione sul portone di casa con Antonino Salvo, alle 20 e trenta del 19 marzo 1956.
Rosa Pino fu trovata il mattino del 21 dopo ore di affannose perlustrazioni da parte di Paolo Pino, zio della stessa donna, accompagnato per le campagne circostanti e per gli anfratti dal giovane compaesano Mariano Perdichizzi. I due, giunti dentro la torre, videro a metà del cunicolo d’ingresso al pozzo una scarpa da donna e, poi, un corpo sospeso nell’acqua. Era quello di Rosa. Meno di un’ora dopo giunsero sul posto il procuratore della repubblica Fiorentino, i vigili del fuoco e il medico legale “l’illustre professor Faraone”.
Scrive Silvestro Prestifilippo sulla Gazzetta del 22 marzo: “II cadavere presentava un leggero gonfiore all’addome, tale però da non essere addebitabile all’acqua ingerita ed era di proporzioni relative. Il colorito della carne della povera Rosa era normale, non presentava cioè la sintomatologia — continua Prestifilippo — dei morti per soffocamento in acqua. Aveva le mani con i pugni serrati nella rigidità relativa del cadavere che come si sa l’acqua conserva non assoluta. La sorpresa maggiore però fu quella di avere notato nella zona mammaria sinistra il foro d’entrata di un proiettile di rivoltella, e nella zona retroauricolare sinistra il foro d’uscita con ritenzione al margine del proiettile che risultò di pistola di piccolo calibro; altro foro di proiettile la povera morta presentava alla mano destra… Quella del delitto stasera non era più un’ipotesi ma una versione della morte”.
La vittima aveva ancora al polso l’orologio d’oro, che segnava le 7 e 10, al collo la catenina d’oro, e inoltre duemila e cento lire legate in un fazzoletto e fermate con una spilla al reggiseno.
Nel frattempo il capitano dei carabinieri Rositani fermava il fidanzato di Rosa, Antonino Salvo, che era intento a lavorare in un fondo poco distante dal luogo del ritrovamento del cadavere, e lo sottoponeva ad un pressante interrogatorio. L’uomo negava di essere stato lui ad uccidere la fidanzata, resistendo strenuamente alle pressioni psicologiche messe in atto dagli inquirenti. Ebbe qualche incertezza ed entrò in contraddizione solo dopo essere stato messo a confronto con il fratello, sospettato per qualche ora di complicità. Poi, il 23 marzo, crollava e confessava il suo atroce crimine sostenendo però di avere agito per legittima difesa e con la stessa pistola che Rosa Pino gli avrebbe puntato in un disperato tentativo di farsi sposare o di lavare col sangue il disonore.
Luigi Masciari, sulla Tribuna del Mezzogiorno dei 24 marzo 1956, così racconta gli sviluppi della vicenda: “II punto di partenza per la scoperta del reo era costituito da un’indagine che i carabinieri facevano in casa Salvo. Infatti veniva chiesta l’esibizione dell’abito che egli indossava la sera di San Giuseppe. Era giocoforza ai genitori del prevenuto dichiarare che il vestito era stato lavato e stirato in casa. L’indumento veniva repertato e qualche cosa denotava che lo scopo del lavaggio era stato quello di far sparire le macchie di sangue. Questo fatto determinava il Salvo a fare una prima confessione.
Una prima confessione mitigata, ma che d’altro canto poteva anche avere la parvenza della verità. Antonino Salvo ammetteva di avere ucciso Rosa Pino, ma non si trattava di un delitto premeditato. Aveva cercato di difendersi dalla minaccia che la ragazza gli aveva fatto con un’arma, poi aveva ucciso”.
Ma cosa accadde realmente la notte del 19 marzo?
Intorno alle 22 e 30 Rosa Pino uscì dalla finestra della cucina per non farsi scorgere dai suoi. L’appuntamento con Antonino Salvo era in un luogo piuttosto lontano da casa, quindi portò con sé una lampadina tascabile. Si incontrarono e si appartarono nei pressi del pozzo di contrada Majorani. Erano sdraiati sul cappotto di lei, in un abbraccio d’amore che doveva rivelarsi un inganno mortale per la giovane innamorata. Mentre ancora la stringeva a sé Antonino le chiese:
“Li hai portati i soldi?”. Alla risposta negativa, l’uomo improvvisamente estrasse la pistola, un rottame di marca estera, la puntò in direziono del cuore di Rosa che, forse istintivamente, frappose la sua mano tra la canna dell’arma e la mammella sinistra, e fece fuoco tre volte. Una pallottola bucò la mano, penetrò fino all’aorta spezzandola e fuoriuscì da dietro l’orecchio restando impigliata tra i capelli. Il sangue di Rosa si sparse violentemente sui vestiti di Antonino Salvo, imbrattandogli la camicia e il fazzoletto che egli portava al collo. L’omicida avvolse la sua vittima nel cappotto; poi trascinò il corpo senza vita fino all’imboccatura del pozzo. Trattenendo per i bordi il cappotto fece scivolare il cadavere nell’acqua appena rischiarata dalla luna. Frettolosamente raccolse la lampadina tascabile ma non si accorse di avere lasciato sulla scena del delitto una scarpa della ragazza. Il cappotto lo sotterrò sulla strada del ritorno a casa, lungo il greto del torrente fece a pezzi la “lampadina elettrica” e ne disseminò i frammenti per non lasciare tracce. In un rudere abbandonato trovò il nascondiglio per la pistola, celandola in un buco che tappò con una pietra. Infine corse a casa con ancora il vestito insanguinato addosso, che si preoccupò di fare lavare, celando sotto il letto gli altri indumenti con pesanti tracce di sangue.

Luigi Masciari sulla Tribuna del Mezzogiorno (24 marzo ’56) racconta come gli inquirenti arrivarono alla confessione definitiva del Salvo dopo la prima versione della legittima difesa: “…Dopo queste ammissioni il Salvo, al quale veniva fatta indossare una divisa da carabiniere, veniva sotto buona scorta condotto fuori dalla caserma ammanettato per effettuare il sopralluogo e rintracciare il cappotto e la rivoltella. Inutile dire che la sortita dei carabinieri che scortavano un militare dell’arma… in stato di arresto destava però curiosità negli abitanti di Saponara che come già detto ieri, non si stancavano di stazionare davanti la caserma in attesa del maturare degli eventi. Dopo una rapida analisi della strana apparizione, la verità era chiara per tutti: doveva essere quello l’assassino di Rosa Pino. …l’automezzo sul quale era stato fatto montare il Salvo camuffato in abiti da carabiniere e fortemente vigilato raggiungeva in breve la prima tappa: il punto dove era stato nascosto il cappotto della vittima. Poco profonda la buca forse per un freddo calcolo dell’assassino che sperava nell’ingrossarsi del torrente per la definitiva sparizione del compromettente indumento. Repertato il reperto — continua Masciari — il gruppo si dirigeva verso la cisterna e lì davanti all’ingresso il Salvo faceva scrivere la tremenda scena della notte tra il 19 e 20. Dopo questo sopralluogo il gruppo rimontava sull’automezzo e rifaceva il torrente Scarcelli raggiungendo la rotabile e quindi il vico San Gaetano dove il Salvo indicava la buca nella parete della casa semi diroccata dove aveva nascosto l’arma. Non era facile riportare fuori la rivoltella ma manovrando abilmente un carabiniere recuperava dal nascondiglio l’arma del delitto.
Ormai non vi era altro da fare. La lampada non poteva essere recuperata perché il Salvo dichiarava di averla ridotta a pezzi e gettata. Tornati in caserma…Veniva interrogato anche tale Giuseppe Fratantaro abitante in località Sant’Andrea di Rometta e cioè sulla sponda opposta del torrente Scarcelli. Costui il giorno avanti aveva detto che la sera del 19 alle ore 23, aveva udito due colpi di arma da fuoco. Era stata questa una delle circostanze che aveva reso sicuri i carabinieri che l’omicidio era stato commesso poco lontano dal pozzo dove il corpo della vittima era stato trovato. Il Fratantaro confermava la precedente dichiarazione”. Restava da stabilire se l’arma fosse realmente di Rosa Pino, come affermava in un primo momento ostinatamente Antonino Salvo. Ma le perquisizioni nella casa della giovane diedero esito negativo. Fu a questo punto che Salvo crollò e rese piena confessione del delitto. Fu così comprensibile il movente dello stesso omicidio: Salvo, dopo aver sedotto la giovane, non intendeva riparare con il matrimonio. Pressato da Rosa Pino insistentemente per due anni, premeditò di risolvere la questione assassinandola. “Questa l’ammazzo”, si lasciò sfuggire di bocca un paio di volte in preda all’ira. E quindi mise in atto il suo progetto, attirando Rosa in piena notte in aperta campagna con la promessa della “fuitina”, ma a condizione che la giovane portasse il denaro sottratto al padre per poi, quando si fossero calmate le acque, fare i bagagli ed emigrare in Germania.
Rosa si presentò all’appuntamento ma con sole duemila e cento lire stipate nel petto. Troppo poche, ma in ogni caso il destino della giovane nella mente di Antonino Salvo era già segnato.
Nel marzo del 1958 si svolse a Messina il processo di primo grado e Salvo fu condannato a scontare diciotto anni e tre mesi di reclusione, essendo stato riconosciuto colpevole di omicidio escluse le aggravanti della premeditazione e dei motivi abietti e futili. Il Salvo propose appello e nel dicembre dello stesso anno i giudici della corte d’assise e d’appello di Messina, dopo un paio d’udienze e mezz’ora di camera di consiglio, condannarono l’omicida a 28 anni. Salvo, che nelle aule di Tribunale aveva sempre mantenuto il capo chino verso terra, alla lettura della sentenza sbiancò visibilmente in viso per poi ripiombare nell’apatia che lo aveva contraddistinto, la stessa che gli consentì di uccidere con spietata ferocia la sua donna. Recluso nel carcere di Viterbo, uscì di prigione otto anni prima del previsto per buona condotta. Nel Lazio lavorò come giardiniere e solo da pochi anni aveva fatto ritorno in paese definitivamente tra la sua gente che, comunque, non ha mai rimosso il ricordo di quel tragico San Giuseppe del marzo 1956.

Francesco Venuto – 9 maggio 1997

P.S. Ho ritrovato questo articolo nei giorni scorsi. Ovviamente oggi mi accorgo di avere subito molto, nel’esporre i fatti, l’influenza barocca derivante dalla lettura dei ritagli di giornale d’epoca. E’ comunque uno dei servizi a cui sono affezionato perché racconta con crudezza un’epoca odiosa della nostra storia sociale, quella dei nostri padri, dei nostri nonni. La mentalità, le consuetudini ”tribali”: oggi ci scandalizziamo quando veniamo a contatto mediatico con le realtà sociali irachene o afghane ecc. Chiediamoci invece quanto di questo assurdo mondo è ancora presente nel nostro Dna… E quanto male ci procura, per fortuna sotto altre forme, anche se comunque non meno dolorose…