L’antica tradizione del pane eoliano fatto in casa: tra storia e prospettive future.

ISOLE EOLIE- In tempi non molti lontani, il pane realizzato nelle case eoliane, rappresentava un rito. Un’antica tradizione che oggi si conserva immutata soltanto in rari casi, ma che rivive testardamente nella memoria storica di una collettività in cui i ricordi sono molto spesso legati a profumi e sapori.

Parlare del pane eoliano vuol dire cultura, descrivere un pezzo di storia in cui i personaggi sono anonimi, significa esaltare il valore dell’umiltà, la nobiltà della miseria. Una miseria che sanciva un legame inscindibile tra le famiglie ed esaltava il senso di appartenenza di un’intera comunità.

E’ impensabile non iniziare questo racconto, infatti, dalle cosiddette “comari del lievito”, le donne che partecipavano a quel rito popolare a cui questo articolo intende anche rendere omaggio.
Il lievito (“u livàtu”) si otteneva mescolando circa 200 grammi di farina con acqua tiepida, in modo tale da ottenere un composto acido che poteva essere utilizzato a partire dal giorno dopo e conservarsi per poco più di una settimana. La preziosità di questo lievito, unito al fatto che il proprio tempo di conservazione fosse relativamente breve, consentiva gli scambi tra le varie famiglie, poiché nulla di esso doveva essere sprecato. Pertanto le donne di una famiglia, una volta conservata la quantità a loro sufficiente per realizzare il pane, si aggiravano per il vicinato domandando alle altre “comari” se volessero prestata la rimanente parte. Molto spesso inoltre, più famiglie si riunivano in occasione della realizzazione del pane (in cui le protagoniste indiscusse erano proprio le donne) dividendo le risorse a loro disposizione.
La procedura era, quantomeno secondo la prospettiva odierna, molto laboriosa.

La sera precedente alla preparazione del pane, si provvedeva ad unire al panetto di lievito, 1 chilo di farina, amalgamandoli a fontana, sempre con acqua tiepida. Una volta conclusa questa fase, il risultato ottenuto veniva lasciato riposare per tutta la notte, pronto ad essere utilizzato la mattina seguente, quando sarebbe servito ad impastare fino a 20 chili di farina. Una piccola curiosità è legata al sale il quale, essendone richiesta una dose di 20 grammi (per chilo di farina), veniva pesato utilizzando come unità di misura il palmo di una mano.

La lavorazione finale del pane prendeva il nome di “scanatura”, tramite la quale si producevano dei pezzi simili a delle pagnotte o le famose “minzine”. Portata a termine questa fase, si inserivano nel forno e subito dopo venivano divisi in spicchi. I vari pezzi così ottenuti, venivano quindi rimessi in forno per realizzare il pane “caliatu”.
Il pane veniva ovviamente, “caliatu”, cioè lasciato a lungo in forno fino alla morte delle braci, per permettere una lunga conservazione dello stesso, in perfetta sintonia con il detto “megghiu pani tuostu che fami niura” (meglio il pane duro che la fame nera). Prima di essere consumato, questo pane veniva immerso in acqua calda o fredda. Nel primo caso quando si desiderava consumare il pane “cunsatu” (condito), con origano, sale, olio e pomodoro, mentre era preferibile l’acqua fredda quando il pane “caliatu” serviva ad accompagnare piatti a base di carne o pesce.

Nelle famiglie in cui abitavano bambini piccoli, si realizzava invece “u catanieddu”, una pasta arrotolata, una sorta di ciambella, che per evitare litigi veniva realizzata sempre della stessa dimensione.
Infine un’altra tipologia di pane eoliano è “a vuastedda”, una pasta morbida alla quale venivano uniti “i passuli” (l’uva passa).

Di questa affascinante tradizione, come in precedenza già sostenuto, rimangono attualmente pochi esempi: il progresso e, di conseguenza, anche una migliore condizione economica generale, hanno agito su di essa, trasformandola in una eccezione portata avanti soprattutto dalle donne più anziane. Paradossalmente, venuta meno la miseria, si è quasi smarrita la ricchezza contenuta in un rito che non ha un peso esclusivamente culinario.
E’possibile salvaguardare la memoria di quei gesti compiuti fino a qualche decennio fa? Come mantenere in vita i ricordi ed escludere la terribile minaccia dell’oblio?
Una risposta, di certo forse la più scontata, è quella di tramandare alle nuove generazioni le modalità attraverso le quali il pane fatto in casa faceva la propria comparsa sulle tavole delle famiglie eoliane. Un’azione senza dubbio nobile.
Eppure esiste un’altra strada: quella di recuperare gli antichi metodi di lavorazione del pane, non in una funzione strettamente “storico-sociologica”, bensì anche in vista dell’espansione del mercato slow food.
Lo slow food è quel movimento che si batte contro l’omologazione del gusto, a quella spietata tendenza che tende ad impoverire lo scenario alimentare e gastronomico mondiale, uniformando i vari sapori in virtù di una bieca supremazia del commercio. Lo slow food difende, al contrario, le diverse identità culturali legate alle tradizioni culinarie di un territorio, protegge e diffonde insomma, le biodiversità.
Con questa prospettiva, il pane eoliano potrebbe offrire un’importante occasione di sviluppo economico, una possibilità da non scartare a priori con sufficienza. Attraverso la riscoperta dei sapori di un tempo, si potrebbe così creare un nuovo settore da cui l’economia eoliana potrebbe trarre giovamento e soprattutto incentivare il turismo creando degli appuntamenti incentrati sullo slow food.
Forse il pane fatto in casa potrebbe rivelarsi non solo come una ricchezza storica: vale la pena di provare.

Salvatore Taranto