Il castello di Bauso e le due gabbie sulle torri

VILLAFRANCA TIRRENA – Trenta, trentacinque, forse sono anche di più gli anni che hanno visto i cancelli del castello di Bauso, a Villafranca Tirrena, sbarrati. Inutilmente: il paese per tutto questo tempo è stato privato del suo monumento più significativo. Un totem inavvicinabile: intere generazioni non lo hanno potuto vedere.

Visite possibili solo per i pirati e i vandali

Oppure se lo hanno visitato ciò è avvenuto in maniera piratesca, infilandosi nei varchi che il tempo e il degrado ha aperto naturalmente, oppure arrampicandosi lungo le alte mura. Un fatto penoso se si pensa che il castello di Bauso è di proprietà pubblica e qui, tra una cementeria ormai chiusa (che ha permesso la ricostruzione di Messina dopo il terremoto del 1908), e una chiesa che conserva le spoglie di una delle nobil donne che hanno abitato le magniloquenti stanze del palazzo, in questi lunghi anni è stato speso tanto, tantissimo denaro. Soldi pubblici ovviamente.

Quindi anche per questo l’apertura dei cancelli, oltre la retorica che in queste occasioni è quasi ineluttabile, e spesso insopportabile, ha grande valore simbolico, ma principalmente politico. Permettendo la riapertura del castello di Bauso, “sfondando” le porte dell’altro palazzo della vicina Spadafora, i piccoli centri finalmente cominciano a riappropriarsi della loro identità storica. Identità di cui si ha bisogno specie nei momenti di crisi, come quello che ormai da quasi dieci anni vive Villafranca Tirrena. Un paese  che ha perso tutti i punti di riferimento in cui aveva creduto dalla fine dal 1959 in poi: le grandi fabbriche come la Pirelli, l’industria pesante come l’Italcementi, l’artigianato. Tutto è stato bruciato in pochissimo tempo.

E’ tempo di pensare ai beni culturali, dopo l’ubriacatura industriale

In principio erano quelli i simboli di cui vantarsi, visto che anche il castello, per qualche tempo, e poiché non si trovavano locali idoeni altrove, era stato adibito a “Maglieria industriale”. Oggi lo scenario è cambiato, e sono cambiati i villafranchesi anche se qualcuno non lo ha voluto capire quando ha permesso che si smantellassero, solo pochi anni fa, gli ultimi simboli storici presenti nel paese, come i portali con mascheroni apotropaici di via Nazionale. Mascheroni che pare saranno messi in mostra proprio in questi giorni nelle sale del castello.

Le decisioni in mano al Soprintendente

Se quindi la riapertura del castello è un evento per Villafranca, e un cambiamento della politica della gestione dei beni culturali della provincia di Messina, il merito deve pur essere di qualcuno. Questi qualcuno sono: da una parte il sindaco di Villafranca Piero La Tona, un primo cittadino che non pensa solo all’ordinaria amministrazione del comune, il cui bilancio peraltro non è dei migliori, ma principalmente Gianfilippo Villari, il Soprintendente per i beni culturali di Messina.

La Regione Siciliana è la proprietaria del castello

Villari è il padrone di casa, perché il castello di Bauso è di proprietà della Regione Siciliana, e non ha esitato un attimo a sposare la proposta del sindaco La Tona per arrivare all’apertura al pubblico del monumento. Apertura immediata del castello, quindi, per sottrarlo al degrado e restituirlo alla gente e l’elaborazione di un programma a medio termine per arrivare alla creazione di un “Museo del brigantaggio siciliano”. Un programma, questo,  in onore al romanzo “Pascal Bruno” di Alessandro Dumas padre, che ha raccontato le vicende di un brigante le cui gesta si sono svolte all’ombra del castello e la cui testa e e mani sono state esposte al pubblico ludibrio per molti anni, dentro una gabbia di ferro appesa ai merli delle sue torri.

La storia più recente del castello

Nel 1819 Carlo Cottone vendette il Castello di Bauso, non essendogli sufficiente il patrimonio liquido per intraprendere un’opera che gli stava a cuore: la costruzione di un Istituto agrario nella sua villa sui colli, vicino Palermo. Quando, nel 1819, i conti Pettini acquistarono il castello per 9.000 onze, il palazzo conobbe una nuova vita e fu eletto a biglietto da visita di una famiglia che amava mostrare fasto, ricchezza, nobiltà.

Con qualche smania di grandezza i Pettini fanno affrescare il loro stemma sul soffitto di una sala, arricchiscono l’edificio di pitture, di rilievi marmorei con i ritratti dei familiari, di busti romani e statue femminili con vesti drappeggiate alla maniera classica, poste sulla gradinata che sale alla porta principale: opere di non alta fattura, ma certamente espressione di un gusto orgoglioso, di un desiderio di “rappresentanza”. Inoltre viene creata intorno al palazzo di Bauso una “deliziosa villa”, di cui riferiscono tutte le guide locali, ampio giardino con vialetti e cortili, ridente terrazza con vista sulle Eolie.

Qui amano fermarsi i Vicerè in viaggio tra Palermo e Messina e d’altra parte il loro soggiorno era reso gradevole dagli spazi ben strutturati comprendenti, oltre l’ampio seminterrato, un piano terreno di più di 600 metri quadrati di superficie, un primo piano con quattordici vani e annessi accessori, varie verande e balconi. Anche i Pettini intrattenevano molteplici rapporti. Il poeta messinese Felice Bisazza, ad esempio, trascorreva le vacanze nel vicino villaggio di Serro; su questi soggiorni la sua penna restò muta, ma egli dedicò invece una poesia piena di dolore ad una contessa Pettini, morta giovanissima: “Nel turrito palagio ella ritorna…” Ed una lapide di marmo posta dal conte Francesco Pettini alla moglie Maria Antonietta, scomparsa nel 1844 a soli ventisei anni, è nella chiesa di San Nicola, nella piazza proprio di fronte il castello di Bauso. Un’amicizia confidenziale legava poi Domenico Pettini al poliedrico Giuseppe Grosso Cacopardo.

Il mito: Pasquale Bruno

Pasquale Bruno era un brigante vissuto tra Bauso e Calvaruso tra la fine del Settecento e l’agosto del 1803, data della sua impiccagione nella Marina di Palermo, reso famoso dalla penna di Alessandro Dumas che, nel 1838, scrisse appunto il “Pascal Bruno”, quasi la prova generale de “I tre moschettieri” pubblicato sei anni dopo. In Italia il romanzo “storico” di Dumas fu tradotto e pubblicato nel 1841 per i tipi dello “Stabilimento Poligrafico Empedocle di Palermo. Forse solo allora i “bausoti” hanno appreso di avere varcato con un’inaspettata notorietà i confini del “Regno delle due Sicilie”.

Poi per centocinquant’anni la vicenda del bandito e il romanzo di Dumas sono finiti nel dimenticatoio, se si escludono i racconti dei più anziani e qualche copia dattilografata del libro custodita da alcuni come se fosse una preziosa reliquia. “Pascal Bruno” ritrova la strada delle librerie nel 1988 quando, quasi contemporaneamente, e all’insaputa l’uno dell’altro, ripubblicano il romanzo le “Edizioni della Zisa” di Palermo, che ripropone la versione del 1841 riveduta e annotata a cura di Claudio Rizza, e il professore Giuseppe Celona, cultore di storia locale, nato a Villafranca Tirrena ma trasferitosi da parecchi anni a Ficarra, che ritraduce e annota il romanzo direttamente dall’originale in francese. Passa ancora un anno e nell’interesse ritrovato per la storia del brigante bausano, tra i volumi della Biblioteca regionale di Messina viene fuori un tassello di verità sul racconto dello scrittore francese.

Il “Giornale di Sicilia” pubblica un interessante articolo nella pagina “Cultura e società”, a firma di Giuseppe Mazzone, che scrive che ogni dubbio sulla reale esistenza del bandito raccontato da Dumas è fugato. Nell’articolo si parla anche del documento ritrovato nella “Cronologia degli afflitti della nobile Compagnia dei Bianchi”, nei “Documenti per servire alla storia di Sicilia” pubblicati a Palermo nel 1917 a cura della “Società siciliana per la storia patria”.

A Villafranca pochi giorni dopo si è tenuta la presentazione della versione tradotta da Giuseppe Celona ma, incomprensibilmente, si è continua ad ignorare la novità emersa con il ritrovamento dei documenti. Inconguenze di una leggenda Nel minuzioso resoconto delle esecuzioni capitali effettuate tra la fine del Settecento e l’Ottocento inoltrato leggiamo che nel 1783 “A cinque maggio. – Nel Piano della Marina, per sentenza della R.G.C. fu impiccato Antonino Bruno, alias “Zuzza”, da Calvaruso, autore degli omicidi di D. Rosario Corso, Governatore di Bavuso e di Pietro Olino, e perché ancora autore di: “delitti d’imperio, d’usurpata giurisdizione del mero e misto impero della terra di Bavuso, e di altri delitti contro la forma delle Regie prammatiche, e asportazione d’armi proibiti, e di resistenza di giustizia fatto nell’atto della cattura”. Nella sentenza non si fa evidentemente menzione del tentato omicidio del principe di Castelnuovo, così come racconta nel suo romanzo Dumas.

Francesco Nicotra scrive invece che «Antonino Bruno, sopranominato Zuzza, avendo commesso molti reati e giovandosi degli antichi privilegi feudali, detti dei Marammisti, sfuggiva alla cattura; ma per tranello tesogli capitò nelle mani della giustizia, e, condannato all’estremo supplizio, il suo teschio fu chiuso in un gabbione di ferro che rimase lungamente appeso ai merli del castello”. Nessun cenno sull’onore violato e Jus primae noctis che avrebbe acceso la violenta gelosia del Bruno.

Il più noto Pasquale Bruno, anch’egli soprannominato Zuzza, sia per la leggenda che per la storia fu il degno figlio di cotanto padre, e solo per il Nicotra è invece il nipote. (Molte delle notizie riportate nel suo “Dizionario dei comuni siciliani”, Francesco Nicotra le apprendeva dai segretari comunali e dai soliti acculturati locali; questi ultimi spesso riportavano informazioni per sentito dire con la conseguenza che ancora oggi è difficile separare la leggenda dalla verità storica.

Ancora oggi sono gustose quelle storielle che raccontano gli anziani di Villafranca che, a loro volta, le hanno sentite in gioventù dai loro nonni, e che narrano, per fare un esempio, di un Pasquale Bruno che, con mira sorprendente, sparava, direttamente dalle finestre del suo palazzo, sulle alture di Bauso, a preti e nobili del castello che si trova un centinaio di metri più in basso. Francamente anche l’identificazione del “Palazzo di Pasquale Bruno”, che viene oggi data per buona, sembra alquanto risibile e priva di qualsivoglia appiglio storico).

Vent’anni dopo il padre, viene impiccato Pasquale. Analoga sorte del Padre Antonino tocca a Pasquale giusto vent’anni dopo, il 31 agosto del 1803: ancora per sentenza della regia Gran Corte venne impiccato nel piano della Marina a Palermo. “Reo convinto di più omicidi e di altri delitti, – recitava il biglietto di giustizia consegnato il 29 agosto dal R.P.F. Francesco maggiore ai confrati del Santissimo Crocefisso dei Bianchi – con dovergliesi poi recidere il capo e le mani, che si dovranno apporre nella terra di Bauso. E siccome il Tribunale medesimo ha abbreviato il termine della cappella, così dovrà lo stesso entrare in cappella oggi stesso per eseguirsi la giustizia Mercoldì 31 del cadente”.

Si tratta pertanto di “omicidi” e “delitti” plurimi ma non meglio definiti, circostanza piuttosto strana per la “Cronologia degli afflitti” che generalmente precisa i reati, così come era avvenuto nel caso di Antonino Bruno e come è possibile leggere per diversi condannati. Anche questa coincidenza alla fine fa il gioco della leggenda, e così nel romanzo e nella fantasia popolare Pasquale Bruno è l’eroe buono che combatte contro le soverchierie dei potenti, in particolare contro quel principe di Castelnuovo violentatore della madre, tanto da meritarsi, in tempi moderni, anche l’intitolazione di una strada. Il principe di Castelnuovo e Conte di Bauso era nell’arco di tempo in cui vengono immaginati questi fatti Gaetano Cottone Morso (1714-1802), sposato in prime nozze con Anna Maria Barzellini, morta a diciannove anni a Palermo, e in seconde nozze con Lucrezia Cedronio e Gisulfo dalla quale ebbe il figlio Carlo Filippo Cottone e Cedronio che gli succedette nei titoli il 20 ottobre 1803, due mesi dopo la morte di Pasquale Bruno.

Sintetiche ma eloquenti notazioni di un biografo di Carlo Cottone ci fanno immaginare la vita e i costumi della sua famiglia a Palermo: “Carlo Cottone non volle seguire l’indirizzo educativo della propria casta, che risentiva del convenzionalismo aristocratico… Il principe Gaetano Cottone e la Contessa Cedronio che si tenevano in Palermo col fasto medioevale, educarono, altresì il figliuolo Carlo alle arti cavalleresche; ma non poterono vincere la sua innata ripugnanza alle mollezze signorili ed alle pompe gentilizie…”. (Ferdinando Alfonso, Illustrazione dello Istituto Agrario Castel-nuovo, Palermo 1897, pp.7, 8). Nella versione originale del “Pasquale Bruno” Dumas afferma di avere appreso la vicenda del bandito messinese dai racconti del compositore Vincenzo Bellini, e suggestionato da questi fatti avventurosi di avere visitato poi i luoghi che vi facevano da scenario: “giunsi a Bauso, vidi l’albergo, salì per quella strada, scorsi le due gabbie di ferro, una vuota, l’altra piena”. (Celona, p. 11).

La figura del musicista catanese invece non compare nella traduzione italiana del 1841 dove invece la presentazione della città di Palermo è preceduta da una digressione generale sulle città del mondo. (Rizza, p. 13-14 ).

Le incongruenze temporali saltano agli occhi: Bellini afferma che “Pasquale Bruno… è morto proprio l’anno della mia nascita”, che risponderebbe al 1801; più avanti il racconto di Dumas fissa una prima data “era una sera del settembre 1803 (Celona pp. 10-18); “Il primo maggio 1805, si faceva festa nel castello di Castelnuovo. Pasquale Bruno era di buon umore”, ma non immaginava che proprio in quell’occasione, tradito da un amico, sarebbe stato catturato da un gran numero di gendarmi per ordine del principe di Carini dopo una notte di assedio in cui da solo tenne testa ai drappelli armati di tutto punto. (Celona pp. 112 e seguenti). Queste date ritornano, evidentemente ad eccezione di quella relativa al Bellini, nell’edizione italiana del 1841 (La Zisa p. 16 e p. 85).

La vicenda si ripete uguale ma più sintetica nel racconto di Giuseppe Canuti che tuttavia si arricchisce di particolari inediti sulla vita del bandito precedente ai fatti narrati dal romanzo ( Giuseppe Canuti. I briganti, i banditi e i pirati celebri, p. 68-69): l’autore , che passa in rassegna i personaggi più noti alla fantasia popolare, attingendo evidentemente a fonti diverse, non ultime le canzoni dei cantastorie o gli stessi racconti orali, riporta tuttavia in aggiunta che Pasquale Bruno (di cui erroneamente si riferisce la nascita a Bauso, mentre il brigante era di Calvaruso) nacque nel 1780 e che aveva circa otto anni quando il conte di Castelnuovo s’innamorò di sua madre (in realtà il padre Antonino a quell’epoca era già morto), visto che venne impiccato nel 1783), che dopo averla violentata “le fece dare, come pegno del suo amore cinquanta frustate sulla schiena, col pretesto di non essersi piegata con amore alla sua volonta” (Canuti p. 68), e che il conte, pugnalato da Antonio Bruno morì, mentre nel romanzo di Dumas le ferite inferte dal marito vendicatore non risultano mortali. (Alba Drago Beltrandi – Castelli di Sicilia p. 60 afferma “Questa orrida vicenda di teste mozzate, che incombe sul castello con la sua lugubre memoria venne rappresentata nei teatrini dei “Pupi” dove la vita di Pasquale Bruno, brigante intemerato, raffigurato con barbe, occhi e unghie nerissimi e trombone a tracolla, assieme al fido Alì con lunga scimitarra, continua a far fremere di entusiasmo i piccoli spettatori di tali spettacoli ormai rari”).

In conclusione si affida il condannato alla “carità cristiana” e alla pietosa assistenza della Confraternita che lo avrà in consegna sino al momento in cui salirà su patibolo. A questo punto i confrati provvedono ad assegnare al condannato i consueti “conforti“: Girolamo Termini Duca di Vatticani per Capo di Cappella, Padre Ottavio Gerardi del Terz’Ordine per confessore, il barone Don Michele Lanza e il sacerdote Don Carlo Agnetta come novizi.

Ma mentre i quattro designati attendono alla porta segreta che comunica con la prigione la consegna del reo, il Capitano della Regia Corte annuncia la sospensione della consegna a causa di un avvenimento che non ha alcuna rispondenza nel racconto romanzato di Dumas: Pasquale Bruno ha tentato il suicidio. “Aveasi propinato una quarta di sublimato Corrusivo disciolto nell’acqua, che avea tenuto fin da quattro mesi nascosto nel fazzoletto da collo… “. Bisognava quindi attendere l’ulteriore svolgimento della vicenda. Da queste note curate dal Cancelliere della Confraternita Cavalier Don Gaspare Palermo parrebbe pertanto che il Bruno fosse prigioniero da quattro mesi, mentre, nel romanzo di Dumas, non si fa cenno al tempo intercorso tra il suo arresto a Messina e l’esecuzione capitale a Palermo, ma si evince soltanto che il principe di Castelnuovo apprese dell’arresto di Pasquale cinque giorni dopo l’avvenimento e poi “aveva facilmente ottenuto che il condannato fosse trasferito da Messina a Palermo; e Pasquale Bruno, scortato da due capitani d’arme con le loro intere compagnie e da altri rinforzi di truppe, con tutto l’apparato della giustizia entrò nelle grandi prigioni della capitale…”.

La versione romanzata ci presenta poi un Pasquale Bruno eroico e coerente fino all’ultimo istante: nelle ore precedenti la sua esecuzione rifiuta la confessione perché sa di non poter perdonare chi ha fatto del male a lui e alla sua famiglia, trascorre la notte in chiesa in meditazione, guarda caso proprio accanto a una bara che contiene il corpo di Teresa, la fidanzata impazzita per amore e per la lontananza. Nei registri dei confrati invece inizia qui il racconto di ore terribili, di sofferenze fisiche, dovute all’azione del veleno che il bandito aveva ingerito, e spirituali, a causa dell’insinuarsi nella sua anima del pentimento. Si tratta chiaramente di testimonianza quanto mai interessata perché la Compagnia dei Bianchi, i fratelli della Buona Morte per Dumas, avevano tutto l’interesse a dimostrare il pentimento del reo, almeno tanto quanto la Regia Gran Corte aveva interesse al fine esemplare delle esecuzioni capitali. Dai documenti originali della “Compagnia del Crocifisso o dei Bianchi”. 1783 – A 5 maggio.-

Nel piano della marina, per sentenza del R.G.C. fu impiccato Antonino Bruno, alias Zuzza, da Calvaruso, autore degli omicidi di D. Rosario Corso, governatore di Bavuso e di Pietro Olino, e perché ancora autore di: “delitti d’imperio, di usurpata giurisdizione del misto e mero impero della terra di Bavuso, e di altri delitti contro la forma delle Regie Prammatiche, e asportazione d’armi proibite, e di resistenza di giustizia fatto fatto nell’atto della cattura”. 1803 – A 31 agosto – Nel piano della Marina, per sentenza della R.G.C., fu impiccato Pasquale Bruno, alias “Zuzza”, da Calvaruso, come per il seguente biglietto di giustizia: “Ill.mi Sig.ri Gov.e e Congiunti della Ven.e Compagnia del SS.mo Crocifisso dei Bianchi” Ill.mi Signori Padroni Colendissimi. Essendo stato da S.E. a relazione del Tribunale della R.G.C. Criminale condannato a morte sulle forche Pasquale Bruno alias Zuzza di Calvaruso, reo convinto di più omicidi e di altri delitti, con dovegliesi poi recidere il capo e le mani, che si dovranno apporre nella terra di Bavuso.

E siccome il Tribunale medesimo ha abbreviato il termine della Cappella, così dovrà lo stesso entrare in Cappella oggi stesso per eseguirsi la giustizia mercoledì 31 del cadente. Se ne passa perciò la notizia alle VV. S. Ill.me affinché colla loro solità pietà, e carità Cristiana lo assistano a ben morire conducendolo per la solita strada al solito luogo del patibolo mentre riverendole umilmente le bacio le mani. Delle VV. SS. Ill.me Palermo 29 agosto 1803 Divotissimo ed obbligatissimo Servidore Francesco Maggiore R.P.F.

– giugno 2003 – Francesco Venuto 1992-2020 (Riproduzione e utilizzo dei testi e delle immagini sono vietati)

Nota dell’autore: In questi anni ho aiutato diverse persone (studenti universitari etc,) fornendo documenti e fotografie, di mia proprietà, riguardanti la storia di Villafranca. A parte l’ingratitudine di queste persone a cui ho dato massima disponibilità, sacrificando anche il mio tempo nell’interesse della ricerca, ho potuto constatare che nella maggior parte dei casi non vengo citato nè per i miei lavori, nè per le mie fotografie (di cui peraltro possiedo negativi e positivi originali). Morale della favola: essere disponibili verso il prossimo non paga in alcun modo. E da oggi in poi chi si appropria dei miei lavori riceverà una lettera dal mio avvocato con relativa richiesta di pagamento. Uomo avvisato…