Così fu affondato l’incrociatore Bolzano al largo di Panarea/ Il racconto di un sopravvissuto

PANAREA – Il mattino del 13 agosto del 1942 gli ottocento abitanti di Panarea vennero svegliati da due boati provenienti dal mare. L’incrociatore pesante Bolzano e l’Attendolo erano stati colpiti da due siluri lanciati da un sommergibile inglese nello specchio d’acqua davanti all’isola. Dalla spiaggia era possibile scorgere le sagome delle navi e il fumo denso e nero proveniente dal Bolzano, incendiatosi per lo scoppio di una caldaia. Attorno i cacciatorpediniere di scorta giravano nervosamente tentando di localizzare il sommergibile. Dall’isola partivano alcune barche per cercare di prestare soccorso ai superstiti.

“Erano per lo più anziani, donne e pure qualche bambino. Io ero in acqua per aiutare un marinaio in difficoltà e vedevo le prue delle barche diventare sempre piu grandi, avvicindosi”.

Vincenzo Costantino, 73 anni, poco più che ventenne all’epoca dei fatti, è un superstite del “Bolzano”; sul suo foglio matricolare c’e scritto che ha partecipato pure alla hattaglia di Punta Stilo e di Capo Matapan. Oggi e un tranquillo pensionato di Villafranca Tirrena.
Se a Panarea in questi giorni attraverso una mostra fotografica è stato ricostruito l’accaduto secondo quanto hanno visto gli abitanti da terra, Vincenzo Costantino lo racconta per come lo ha vissuto a bordo del Bolzano: “Tutto inizia la mattina del 12 agosto. ”Supermarina”, il comando a terra delle operazioni navali, ordina alle tre divisioni di stanza a La Spezia, Napoli e Messina di riunirsi al largo della Sardegna e, quindi, fare rotta verso Est. Io stavo in plancia, e il mio compito era quello di manovrare i telegrafi di bordo, mentre la mia qualifica era di sottocapo trombettiere. Dopo esserci riuniti con le altre navi abbiamo ricevuto la visita di un ricognitore inglese che ci aveva localizzati.
A mezzanotte gli aerei nemici hanno lanciato persino dei bengala per poterci vedere. Poi ”Supermarina” con un fonogramma ci ordina di rendere esecutivo il grafico numero 9: che significava navigazione a zig-zag per evitare i siluri.

L’equipaggio, comunque, sapeva benissimo che da un momento all’altro si sarebbe potuto scatenare l’inferno. Anche se solo dopo alcune ore si e appreso che il nostro obiettivo era un convoglio di navi inglesi in transito nello Stretto di Gibilterra. Obiettivo sfumato poiché in nottata eravamo già sulla rotta del ritorno con il ”Trieste” che navigava allineato al ”Bolzano”, davanti agli incrociatori ”leggeri”, e attorniati dai cacciatorpediniere. Finito il mio turno di guardia in plancia, come al solito, correvo al locale numero 6 per prendere la mia razione di caffè e di immancabili gallette.

Non ehbi il tempo di sorseggriarlo perché dalla sinistra della nave si avvertì il primo scoppio seguito dal sussulto del ”Bolzano”. Istintivamente cercai di raggiungere la prora passando dal locale numero uno, ma invano perché il fumo delle caldaie in fiamme aveva gia raggiunto quella parte di nave. Tornai al 6, cercai una via di scampo svitando le ”farfallette” di un boccaporto; sollevato il portello, appena messa fuori la testa vidi l’Attendolo saltare in aria colpito dal secondo siluro. In tutto il sommergibile prima di fuggire ne sparò quattro, due dei quali andati a vuoto. Intanto ero rimasto incastrato con mezzo corpo fuori dalla nave e le gambe penzoloni, non riuscivo a sollevare completa- mente il portello di uscita, forse un tubn dell’areazione me lo impediva.
Gridai aiuto, invocai il nome di Beato, il nostro capo trombettiere mentre sulla coperta della nave era l’inferno: vedevo i feriti che venivano trasportati a poppa, gli ustionati ricoperti dalla crema nera che avevamo in dotazione, i primi morti. Poi Beato arrivò e anch’io mi diressi verso poppa. Gli ufficiali e il comandante, tra l’altro, dovettero abbandonare la plancia ormai invasa dal fumo. Merzagora, il comandante, al primo imbarco sul ”Bolzano”, appariva fresco, risoluto, chiamò un marinaio per fare allagare la ”Santa Barbara”, il deposito delle munizioni, per evitarne lo scoppio, tentò fino all’ultimo di far restare l’equipaggio a bordo e di portare in secca la nave. Per tre volte un cacciatorpediniere ci lancio il sacchetto con cui recuperavamo il cavo d’acciaio che ci passava per rimorchiarci. Tutti i tentativi finirono con la rottura del grosso cavo d’acciaio. Fu a questo punto che il comandante venne a poppa e ci grido: ”Marinai del Bolzano, a chi il Bolzano?”. ”A noi”, rispondemmo in coro. ”Saluto al Re”, ”Viva il Re”, ”Saluto al Duce”. ”A noi”. ”Abbandonate la nave” ”.

Francesco Venuto

«Durante le operazioni di abbandono del Bolzano abbiamo vissuto dei momenti drammatici: dovevamo allontanarci al più presto dalla nave perché la superficie del mare tutto intorno era coperta di nafta e poteva incendiarsi da un momento all’altro». Vincenzo Costantino racconta gli attimi di panico e di paura come se fosse accaduto ieri: «Nella confusione non riuscivamo a contarci, non sapevamo quanti di noi erano morti, chi era rimasto tra le fiamme, chi tra le onde cercava aiuto racconta Costantino –. E mentre ero sulla zattera di salvataggio improvvisamente vidi Vincenzo annaspare nell’acqua e guardare smarrito in cerca di un appiglio. Mi tuffai senza neanche pensarci e andando in immersione lo sollevai verso l’alto per farlo avvicinare e aggrappare alla barca».
Cosi Costantino salvò la vita a Vincenzo Barbera, compagno di marina e di sventura. I due amici si incontrarono di nuovo a Pola, dopo un paio di mesi. «Passeggiavo sul lungomare della cittadina istriana – ricorda Vincenzo Costantino quando improvvisamente mi sento abbracciare alle spalle e una mano mi copre gli occhi. Mi giro di scatto e mi trovo di fronte il volto dell’amico che avevo salvato nelle acque di Panarea. Ci gettammo entrambi le braccia al collo e Vincenzo non mi presentò subito agli amici che erano vicini col mio nome e cognome: per lui ero rimasto ”il salvatore”. Poi mi invitò a cena: e quella, per noi militari con pochi soldi in tasca e i tempi duri, era un’offerta di vera amicizia. Per questo gli risposi: ”Vicé, se hai qualche lira, conservatela, che ce ne sarà bisogno”. Poi non l’ho visto più, di lui si sono perse completamente le tracce».

Quarant’anni di buio durante i quali Vincenzo Costantino ha più volte cercato l’amico chiedendone notizie a tutti i reduci che ha incontrato. Ha anche pensato di rivolgersi alla televisione, ma le liste d’attesa sono lunghe. «A quanto ricordo, Vincenzo Barbera dovrebbe essere della provincia di Siracusa – afferma Costantino –. Se oggi fosse vivo avrebbe la mia stessa età, settantatré anni. Lo devo ritrovare perché abbiamo tante cose da raccontarci e poi abbiamo lasciato in sospeso il discorso della cena: questa volta, pero, gliela offrirei io di vero cuore».

Francesco Venuto