Cappa e spada made in Sicily/”Pasquale Bruno” di Alessandro Dumas tradotto dopo 120 anni da un preside di Villafranca Tirrena (1989)

VILLAFRANCA TIRRENA (Bauso) – autore Giuseppe Mazzone, pubblicato sul Giornale di Sicilia del 23 aprile 1989 pagina 22 – Per la legge, Antonino e Pasquale Bruno, padre e figlio, furono banditi comuni e da impiccare. Per la fantasia popolare due eroi senza macchia e senza paura. Della leggenda si impadronì Alessandro Dumas, proprio quello dei «Tre moschettieri», e descrisse le gesta di «Pasquale, il bandito di Bauso, il paese a una ventina di chilometri da Messina diventato poi “Villafranca Tirrena”. Ma come mai Dumas decise di occuparsi di questa storia cosi lontana, fino a scendere in Sicilia e visitare i luoghi, intorno al 1837?
Lo racconta lui stesso. Fu Vincenzo Bellini, incontrato a Parigi, a raccontargli di Bruno, a coinvolgerlo al punto da strappargli la promessa di un romanzo. Ora «Pasquale Bruno» è stato ritradotto da Giuseppe Celona, cinquantenne preside e letterato compaesano del bandito, ristampato e presentato ieri sera nel corso di un convegno svoltosi nel Municipio del centro tirrenico. l’anno prossimo sicuramente molte scuole medie lo adotteranno. L’ultima traduzione risaliva al 1870, e pochi ormai in Sicilia erano a conoscenza dell’esistenza di un romanzo tutto siciliano di Alessandro Dumas.
Il professor Celona ci ha pensato una vita, da quando i vecchi del paese gli raccontavano le mirabolanti imprese di Pasquale. Poi, all’università venne a sapere dell’opera dello scrittore francese ed è riuscito a ritirare da Parigi il manoscritto originale, pubblicato nel 1838 da «Dumont au salon letteraire», due volumi in ottavo col titolo «La salle d’armes» che  comprendono anche «Paoline». Cinque mesi di fitto lavoro per una piacevole traduzione ed ecco il risultato: un cappa e spada made in Sicily, con tutti, ma proprio tutti gli ingredienti del romanzo d’avventura. Una storia d’amore e di morte, ovviamente, appassionata e struggente, dal profumo d’Oriente che secondo Dumas segna inequivocabilmente la nostra isola.

Vediamo un po’. Tutto inizia con un atto di violenza e di sopraffazione del conte di Castelnuovo, padrone di Bauso, che costringe la madre di Pasquale a cedere alle sue lusinghe. Antonino, il papà, per lavare l’onta tenta di accoltellare il Conte, lo ferisce soltanto e in cambio viene preso, portato a Palermo ed impiccato in piazza Marina.
Questo l’antefatto alla rabbiosa esistenza di Pasquale, che vive per vendicare padre e madre, cresce solitario e dolcissimo, scontroso e capace di grandi slanci; insomma, più eroe popolare di così…


Ha come amici un adolescente arabo, un brigadiere del gendarmi, quattro cani corsi e un cavallo mezzo arabo e mezzo montanaro. ll suo cuore batte per Teresa, e qui scatta l’altro intreccio: la ragazza infatti è la domestica di Gemma, bellissima figlia del conte di Castelnuovo, poi sposa al principe dl Carini, viceré di Sicilia sotto Ferdinando IV.
Immaginate a questo punto cosa puo’ succedere? Tutto. Vendette trasversali, odi antichi, trattative, perfidie. La più terribile viene messa in atto da Gemma, la quale da in sposa Teresa all’altro cameriere, Gaetano. Si scatena così l’ira del bandito, che piomba nel bel mezzo della festa di matrimonio, uccide Gaetano e costringe la ragazza a ballare la tarantella intorno al cadavere. Teresa impazzisce. C’e proprio tutto. Dumas non risparmia i colpi di scena del suo campionario, anzi.
Pasquale Bruno fu effettivamente impiccato in piazza Marina il 31 agosto 1803, un mercoledì. «La giustizia si eseguì più di buona ora del solito, di maniera che all’ore ventidue e un quarto tutto era disbrigato», scriveva nel biglietto di giustizia il cancelliere Gaspare Palermo. La testimonianza è stata ritrovata da due giovani dl Villafranca, Francesco e Teresa Venuto (ma non sono parenti), ed è tratta dal «Documenti per servire alla storia di Sicilia» pubblicati a Palermo nel 1917 alla scuola tipografica «Boccone del povero». Il minuzioso verbale del cancelliere racconta dell’ultima vera notte di Pasquale, che tento addirittura d’avvelenarsi. Lo «salvarono» per portarlo sul patibolo.

Giuseppe Mazzone