Nove anni fa gli uccisero il padre, nel corso di una rapina. Per lo Stato non può ottenere i benefici della legge sulle vittime della mafia

VILLAFRANCA TIRRENA – Nove anni fa, nel corso di una rapina all’agenzia del Banco di Sicilia di Villafranca Tirrena, gli uccisero per errore il padre: da allora Antonino Russo, oggi ventinovenne, diploma di ragioniere nel cassetto, lotta contro gli apparati burocratici dello Stato per ottenere il riconoscimento di “orfano delle vittime della mafia e della criminalità organizzata”. Non si tratta di un capriccio, o di una richiesta astrusa: incamerare questo “status” significa trovare un’occupazione negli enti pubblici, poiché questo prevede l’articolo 5 della legge regionale n. 14 del 1989 e le successive modifiche.

Ma ecco cosa accadde il cinque maggio di nove anni fa. Erano le dieci del mattino e sul tratto di via Nazionale, all’altezza dell’agenzia del Banco di Sicilia, un grande edificio bianco il cui ingresso si apre proprio di fronte alla trafficata via “Principe di Napoli”, scorreva la vita di sempre: il caotico flusso di automobili, il nevrotico andirivieni di persone che entrano ed escono dall’istituto di credito, i colpi sordi del batticarne provenienti dalla macelleria ad angolo. Un paio di metri più giù, lungo la via Principe di Napoli, Carmelo Russo, allora cinquantenne, ex camionista sceso definitivamente dal suo Tir per togliersi dai pericoli della strada e per stare vicino all’unico figlio “Nino”, stava riempiendo un sacchetto con la frutta per un cliente della bottega di alimentari di proprietà della moglie, Santa Rizzo. Carmelo Russo in quel momento si era abbassato sulle gambe per raggiungere le cassette di frutta sistemate sui gradini della bottega con i prodotti in bella mostra. In quegli attimi dentro la banca si stava consumando una rapina a mano armata: all’interno entrarono in due, pistole in pugno e volto coperto da calzamaglie (avevano buoni informatori visto che tre giorni prima il metal detector della porta d’ingresso era andato in tilt), disarmarono il metronotte e un agente di Polizia Municipale. Qui entrò in gioco un terzo complice, anch’esso mascherato ed armato che, afferrata per un braccio un’impiegata, la costrinse ad aprire la cassaforte.

Un quarto malvivente, a viso scoperto, invece, teneva a bada i numerosi clienti. Poi si è scoprì che all’azione partecipava una quinta persona, forse il palo. Impossessatisi di circa cento milioni di lire, la banda stava lasciando il teatro della rapina per fuggire a bordo di una Fiat Uno Turbo diesel, rubata a bella posta qualche giorno prima. E’ in questo frangente di tempo che accade l’irreparabile: alcuni passanti, accortisi di quanto sta accadendo, informano incontrandolo in piazza il maresciallo Carmelo Giardina, comandante della locale stazione dei carabinieri; il sottoufficiale percorre di corsa tutta la via Principe di Napoli con lo sguardo rivolto verso l’ingresso della banca e la pistola d’ordinanza in pugno. Giunto a cinquanta metri dall’istituto, dall’altra parte della via Nazionale, passa davanti alla bottega di Carmelo Russo e si mette al riparo tra un pilastro e la vetrina della macelleria ad angolo: vede i rapinatori che stanno fuggendo e grida “Fermi! Fermi!”, sparando contemporaneamente un colpo in aria per avvertimento. La risposta del rapinatore a viso scoperto non si fa attendere: spara con la sua pistola all’indirizzo del maresciallo Giardina; la traiettoria del proiettile viaggia dall’alto verso il basso (la via Principe di Napoli si trova ad una quota inferiore rispetto al piano di calpestio del piazzale davanti alla banca), sfiora il sottufficiale lacerandogli la divisa all’altezza di un braccio e finisce la sua corsa colpendo Carmelo Russo al cuore. Per l’uomo non c’è niente da fare. Ciò che è accaduto poi è scritto nei ritagli di giornale che Antonino Russo conserva ancora ma che evita di leggere per non ricordare le sofferenze passate in quei maledetti giorni di maggio del 1989.

Le indagini sulla sanguinosa rapina hanno avuto fasi alterne: un uomo è stato condannato nel 1991 a ventisette anni di carcere, altri presunti componenti della banda, poi scagionati durante il processo, hanno finito i loro giorni tragicamente. Sullo sfondo restano le ferite ancora aperte della famiglia di Carmelo Russo e di quell’unico figlio al quale lo Stato non ha voluto riconoscere ciò che lui pensa essere un suo diritto: “…Infatti dagli elementi istruttori acquisiti non è emersa la prova che l’omicidio del Sig. Russo Carmelo sia riconducibile a fenomeni di criminalità organizzata…”, si legge nelle risposta che gli ha inoltrato la Prefettura di Messina nel 1994. Evidentemente cinque rapinatori tutti assieme non costituiscono un’organizzazione criminale, e viene escluso apriori che possano appartenere ad un’organizzazione di questo tipo. Per cui Nino Russo, che a vent’anni vide suo padre morire su una cassetta di frutta per colpa di una maledetta rapina, non può accampare diritti. E nel Paese in cui si investono miliardi per i pentiti e dove i falsi invalidi imperano, è tutto dire….

Ma Nino Russo non si è demoralizzato e nel 1997 ha riproposto al Prefetto, che sta riesaminando il fascicolo in questi giorni, la sua tragedia familiare, appellandosi alla legge regionale che regola la materia e ad una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa che, tra l’altro, recita a proposito dei destinatari dei benefici: “… si sono volute indicare le persone che, a cagione di azioni di mafia o di criminalità organizzata, hanno perso la vita incolpevolmente, tanto se queste siano rimaste coinvolte nei fatti casualmente (ad esempio in una sparatoria…)…”. E nella fattispecie Carmelo Russo ha perso la vita al posto di un Maresciallo dei carabinieri.

1998 – Francesco Venuto